Ninetta e le sue sorelle, una sindaca su mille ce la fa
Tra ostacoli e delegittimazioni, in Italia oggi sono 1.210: poco più del 15% del totale. L'ultima, Silvia Salis, eletta a Genova dopo una campagna di insulti e fake news
Sono lontani i tempi in cui l’allora neoeletta sindaca di Milano Letizia Moratti – l’unica donna mai stata al vertice di Palazzo Marino – diceva di voler essere chiamata «sindaco» o «signor sindaco», anticipando di molto i desiderata di un’altra donna, Giorgia Meloni, che sedici anni dopo andrà a ricoprire una carica più ambita rivendicando proprio quel maschile «signor presidente del Consiglio». Eppure, anche se oggi la declinazione al femminile «sindaca» ha preso il sopravvento nella lingua e nell’uso comune – salvo in alcune roccaforti politiche e giornalistiche in cui l’idea di una lingua inclusiva del genere femminile fa accapponare la pelle – così non accade nei Municipi italiani, dove attualmente di sindache se ne vedono ancora poche. Milleduecentodieci, per l’esattezza, l’ultima delle quali eletta il 26 maggio scorso a Genova: Silvia Salis – ex sportiva più volte campionessa italiana di lancio del martello – ha battuto al primo turno l’avversario del centrodestra Pietro Piciocchi.
I dati di oggi e di ieri
Stando agli ultimi dati pubblicati dal ministero dell’Interno, se oggi le donne a capo di giunte comunali sono 1.210, vuol dire che – considerando il numero di 7.861 comuni italiani, totale che ne esclude poco più di un centinaio finiti commissariati – gli uomini con lo stesso ruolo sono 6.651. Ovvero, la presenza di sindache si traduce in un’incidenza che, a livello nazionale, supera di poco il 15 per cento (15,39), che tradotto in termini ancora più semplici significa che solo un comune ogni 6,5 è governato da una donna. Ma ci sono intere regioni – come la Campania e la Sicilia – in cui la quota di donne che siede nello scranno più alto della giunta non arriva neanche al 10 per cento (in quei due territori si raggiunge, rispettivamente, il 6,54 per cento e il 6,59). O peggio: intere province (anche estese) in cui c’è una sola donna eletta prima cittadina nella miriade di comuni che ne fanno parte. In questo, ad esempio, la Sicilia è un caso esemplare: su un totale di nove province, tre – un terzo del totale – hanno una sola sindaca. Si tratta di Catania dove, in compenso, ci sono 51 primi cittadini; Agrigento, che ne conta 41, e Trapani, ultima del podio, con 23 uomini. Catania è anche la provincia con la quota più bassa in assoluto di prime cittadine, solo l’1,92 per cento. Ma anche Bari, con 40 uomini e una sola donna – e quindi con un’incidenza del 2,43 per cento a fronte di 41 centri urbani – si classifica in questo graduatoria della discriminazione.
Ma questi numeri non sono sufficienti a capire il gap elettivo e di accesso alla politica, bisogna essere ancora più espliciti e dire che in 12 Regioni su 20 il numero di prime cittadine in tutto il territorio non supera la cifra minima di 50 e solo in due casi – Lombardia e Piemonte, due aree particolarmente estese e popolose – si sfonda quota 200 (nello specifico, 248 per quanto riguarda la prima e 204 per la seconda). C’è, però, di più e lo si nota ampliando lo sguardo anche alle 15 Città Metropolitane, per le quali vige la regola secondo cui il sindaco corrisponde a quello del comune capoluogo. E nelle grandi città italiane, neanche a dirlo, governa quasi sempre un uomo. Di conseguenza, le uniche due sindache metropolitane in carica sono Sara Funaro – prima cittadina di Firenze dal 27 giugno 2024 – e Silvia Salis. Tutti gli altri (13) sono uomini.
Le oasi virtuose
Esistono però anche oasi più felici nelle amministrazioni comunali, dove c’è una donna ogni cinque uomini: Friuli, Toscana, Valle d’Aosta e Emilia Romagna superano tutte il 20 per cento di presenza femminile (vedi infografica sopra). E anche alcune province risultano un po’ più rosa di altre. La prima in questa classifica è Prato che, a fronte di sette comuni, ha tre sindache (42,85 per cento), seguita da Cagliari con il 35,29 per cento (sei donne in 17 centri urbani) e, nell’ultimo gradino del podio, si piazzano Livorno e Trieste, entrambe con il 33,33% (in numeri assoluti, la prima ha sette sindache in 21 comuni, la seconda con due donne in sei amministrazioni locali). Con un’eccezione lodevole, il Friuli Venezia Giulia, unica regione d’Italia in cui tutte le province superano il 20 per cento di donne elette alla carica più alta della città. Una performance che l’Emilia Romagna è molto vicina ad eguagliare dal momento che l’unica provincia con un tasso lievemente inferiore a questa quota – che dobbiamo dirlo, dalla nostra visuale ci sembra davvero al limite del minimo sindacale – è Reggio Emilia.
Tuttavia, non si può negare che in poco meno di 40 anni – dal 1986 a oggi – la situazione sia comunque migliorata, passando dai 145 comuni amministrati da sindache agli attuali 1.210. E anche rispetto a dieci anni fa si son fatti significativi passi avanti, basti pensare che nel 2015 le prime cittadine alla guida dei governi territoriali erano 1.066 contro i 6.740 colleghi uomini (il 13,7 per cento del totale dei 7.806 comuni italiani rilevati).
«Un percorso a ostacoli in cui alle spalle c’è sempre con un cecchino che prova a spararti»
Non ci si può entusiasmare per numeri ancora oggi risibili perché l’abisso che divide sindaci e sindache ha radici profonde e varie. Quali? Le spiega Martina Carone, consulente e docente in strategie della comunicazione, communication manager di Youtrend Strategies, co-fondatrice di Beyond e autrice di un libro proprio sulle donne in politica, dal titolo “La candidata vincente” uscito per Utet nel 2023. «Si spazia dalla propria biografia familiare ai modelli culturali imposti, fino alla gestione del tempo politico che è tutto a favore degli uomini». In sostanza, «le donne nascono in una dimensione familiare in cui di politica si parla poco e niente, anche perché si replicano modelli familiari e culturali in cui il papà lavora e il tempo libero che ha lo vive fuori dalla famiglia e la mamma non solo lavora ma deve anche occuparsi della cura della famiglia. Di politica non se ne parla».

A questo si aggiunge un «deficit conoscitivo» di cui le donne si sentono portatrici e che Carone, con il suo team di YouTrend ha indagato circa un anno fa attraverso un sondaggio. Con una semplice domanda: «Su una scala da zero a dieci, quanto pensa di comprendere la politica?».
E le risposte sono state sorprendenti perché solo il 27 per cento degli uomini ha risposto di «non comprenderla» mentre per le donne questa percentuale è schizzata al 47, quasi una su due.
«Questo le porta a autoescludersi dalla vita pubblica perché basano questa non partecipazione sul principio che la politica è difficile perché non la capiscono». «Il “non la capisco” – aggiunge Carone – spinge l’elettorato femminile a non andare a votare, per cui, se guardiamo i dati delle Politiche del 2022 e delle Europee del 2024 scopriamo che a votare son stati soprattutto gli uomini e, in seconda battuta, che questo gap di affluenza è più forte al Sud, con province come Crotone, Foggia e Avellino che hanno anche 7-8 punti di scarto tra elettori e elettrici».
Ma provando a guardare da una prospettiva più ottimistica, ovvero quella di una ragazza che decide di prendere parte alla vita politica e di iscriversi a un partito superando gli ostacoli culturali e famigliari, ecco che il risultato resta comunque scarso. Perché «i tempi elettorali e la vita dei partiti hanno ritmi proibitivi per le donne: le riunioni si fanno alla sera dopo cena, i banchetti elettorali nel week end». Insomma, «quello delle donne che si avvicinano alla politica è un percorso a ostacoli in cui c’è sempre un cecchino che prova a spararti». Una metafora chiarissima.
«O madre o replica dell’uomo»: l’eterno dualismo delle candidate
Chi sopravvive e riesce a farsi candidare vive poi quello che Silvia Salis, subito dopo la sua elezione a sindaca di Genova ha spiegato con pochissime ma inequivocabili frasi: «Lo sport (che lei ha praticato per decenni, nda) è rassicurante perché ha regole precise, si basa sul fair play e il rispetto per l'avversario, elementi che nella politica non ho mai trovato, soprattutto in questa campagna elettorale». Salis si riferiva alle foto in bikini che i suoi avversari hanno pubblicato fino a pochi giorni dal voto, alle fake news circolate sul suo conto, così come valutazioni (mai richieste) sulla sua vita sentimentale. Ma soprattutto ai commenti sessisti che le sono stati rivolti: prima dal senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri che la definì «carina ma inesperta», poi dal vicepremier azzurro Antonio Tajani che parlò della scelta del centrosinistra di convergere su Salis. «Alla sinistra non basterà rifarsi il trucco con una persona di bell'aspetto. A questa città non servono persone da passerella, ma un sindaco in grado di continuare il lavoro intrapreso negli ultimi anni dal centrodestra».
«Gli attacchi violenti, la delegittimazione, le attenzioni non gradite sulla vita privata, sulla gestione del tempo libero, sull’estetica sono all’ordine del giorno quando a scendere in politica è una donna», chiosa Carone. Che cita “Violence against women in politics”, uno studio pubblicato ad aprile 2025 e realizzato da tre ricercatori – Gianmarco Daniele dell’Università Statale di Milano, Gemma Dipoppa della Columbia University e Massimo Pulejo dell’Università di Roma Tre – secondo cui «le sindache elette con un margine ristretto – che governano città simili e sono paragonabili agli uomini in base a sedici caratteristiche osservabili – hanno una probabilità circa tre volte maggiore di essere vittime di un attacco».
E questo vale, si legge ancora nel paper, «a parità di contesto, anche nel caso in cui la loro amministrazione e il loro operato siano apprezzati». Soprattutto, vale anche per «le donne che vincono elezioni meno contestate» dal momento che anche loro «affrontano livelli simili di violenza politica». Per i tre ricercatori, poi, «gli aggressori prendono di mira le donne indipendentemente dal fatto che la violenza abbia un effetto concreto sulle politiche, suggerendo che a motivare la differenza di trattamento sia un pregiudizio puro piuttosto che un calcolo strategico».
Premesso questo, per Carone ci sono solo due modi per sopravvivere in un quadro così desolante.
«Le donne che riescono a emergere e durare sono quelle che non mettono in discussione questo sistema sociale in cui loro stesse hanno attenzione alla cura, ai bambini e hanno ruolo di madri e mogli. Oppure, quelle che resistono sono quelle che scimmiottano gli uomini, cioè che ne replicano il modello annullando il loro lato femminile, come ad esempio Daniela Santanché o Angela Merkel».
Dunque, o madre o replica dell’uomo cattivo. Tant’è vero – ribadisce – «che spesso anche nelle nomine di ministeri abbiamo donne cui vengono affidati dicasteri senza portafoglio: ministra per le Pari Opportunità, all’Ambiente, ministra della Gioventù», come nel caso di Giorgia Meloni ai tempi del quarto governo Berlusconi. «Questo meccanismo, che le vede o madri o repliche di maschi, si chiama Double Bind effect, effetto doppio vincolo».
Un altro aspetto riguarda la possibilità di essere ricandidate per un secondo mandato, «evento sempre molto raro perché ci sono dinamiche sia famigliari che di partito che intervengono». In merito a quest’ultime, «nei partiti con una forte democrazia interna, con correnti molto strutturate, come il Pd, i capicorrente sono tutti maschi e questo comporta che, nella preparazione delle liste, raramente si sventaglino molte candidature di donne potenti».
I partiti progressisti, o presunti tali
C’è un tema di orientamento politico che si può leggere nella distribuzione della presenza delle sindache? Per Carone solo in parte, dal momento che «c’è la tendenza a credere che i partiti che pensiamo progressisti siano storicamente quelli più vicini alle istanze femministe, eppure il Pci era terrorizzato dal suffragio universale perché le donne si facevano dire dal parroco chi votare e certamente quello non consigliava Pci».
Se parliamo dell’oggi, è interessante vedere la distribuzione del voto femminile alle ultime Europee utilizzando lo studio “Chi ha votato chi? Gruppi sociali e voto”, realizzato da Cise (Centro Italiano Studi Elettorali) con Luiss e Università di Firenze e curato da Lorenzo De Sio, Matteo Cataldi: le donne hanno una «preferenza per i partiti di sinistra (soprattutto tra le donne che lavorano)» che risulta «in linea ad esempio con la teoria del modern gender gap. Una tendenza che sembra emergere in parte anche dai nostri dati, che vedono le donne votare più degli uomini per M5S e Pd». Ma il partito che raccoglie il maggior numero di elettrici casalinghe è la Lega con una percentuale che si attesta al 30 per cento contro il 13 delle casalinghe che scelgono il Pd. Tuttavia, «non bisogna dare per scontato che le donne votino le donne. Però è evidente – chiarisce Carone – che dove ci sono più donne che votano è perché c’è una maggiore consapevolezza e sofisticazione politica, una maggior partecipazione alla vita pubblica, sono luoghi con maggior cultura e storia politica e quindi è più facile che ci siano più elettori progressisti perché sono più vicini all’espressione democratica». Allo stesso modo, «va considerato che tutte le analisi fanno sempre emergere che c’è sempre una questione sociale, economica e lavorativa che va insieme a quella di genere. Il fattore di genere da solo non spiega granché, va tenuto in considerazione insieme a quello economico in quello che viene chiamato femminismo intersezionale».
Candidata=opportunità
Le ultime elezioni in cui ci fu un rilevante numero di sindache elette furono le Amministrative del 2016, che videro trionfare Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino. Due candidate del Movimento Cinque Stelle, che all’epoca era arrivato da soli tre anni in Parlamento e si proponeva come forza politica nuova e innovatrice. Candidare due donne a un ruolo così importante aveva significato attuare un cambiamento quindi dietro alla loro candidatura c’era – come spesso accade – qualche ragione di opportunità.
«È una cosa che accade spesso: se hai bisogno di uno scenario di cambiamento, candidare una donna ti porta anche un chiacchiericcio mediatico. Questo avviene soprattutto nelle candidature senza speranza: se si rischia di perdere, molti partiti scelgono di candidare una donna così salvi i “big” da una figura poco edificante. Si chiama scogliera di cristallo, perché poi le butti giù, se perdono. E poi, una donna politica ha spesso – non sempre – una rete di potere meno pesante rispetto a un omologo maschio».
Infine, un ultimo elemento importante. La dimensione qualitativa della candidata, che quasi sempre è costretta a dipingersi come «madre, moglie, donna» tre parole rassicuranti verso l’elettorato maschile (che, come abbiamo visto, va al seggio con più frequenza). Una dimensione che, va detto, piace tanto anche ai giornali.
Le pioniere
Tutto quello che abbiamo detto finora non avrebbe senso se questa prima puntata non si chiudesse con qualche cenno storico: raccontare la dimensione politica di questo Paese all’indomani del ventennio fascista, e farlo sempre da una prospettiva femminile e femminista, è uno degli obiettivi di questa newsletter. L’Italia Repubblicana dei primi decenni per certi versi era più progressista di quella attuale. E infatti, nel 1946 c’erano già le prime sindache. Di più: nell’introduzione a “La rappresentanza di genere nelle amministrazioni comunali” pubblicato nel 2016, l’allora presidente di Anci e sindaco di Torino Piero Fassino scriveva che «i Comuni hanno svolto un’azione pioneristica sul tema delle pari opportunità. A cominciare dal primo voto femminile che si è registrato proprio nelle elezioni amministrative del 1946, dove le donne andarono alle urne in 436 Comuni e poi alle elezioni politiche che hanno dato vita all’Assemblea costituente». I nomi di quelle donne sono stati negli anni rimossi, sempre più spesso dimenticati, eppure sono state pioniere in un’Italia che usciva da vent’anni di dittatura in cui il ruolo della donna era stato rilegato in famiglia e non certo sul palcoscenico della politica. Le citiamo e proviamo a raccontarle, nella speranza che qualcuno possa ricordarne i nomi e le gesta.

Ninetta Bartoli viene eletta con un plebiscito nel comune di sardo di Borutta, in provincia di Sassari, e il suo governo cittadino dura 12 anni. Eppure, solo nel 2018 è arrivata in paese la prima piazza a lei intitolata, nonostante Bartoli abbia lavorato per la realizzazione di scuole, della rete fognaria, dell’allaccio dell’acqua potabile alle abitazioni e fatto costruire case popolari. Sarda, di Orune, era anche la maestra partigiana Margherita Sanna. Di lei Carlo Levi scrive, nel suo viaggio in Sardegna pubblicato in “Tutto il miele è finito”: «Il vento soffiava nelle stradette vuote, i monti curvavano i dorsi neri sotto il cielo notturno. Dal municipio uscì una donna dai capelli grigi, avvolta in uno scialle da contadina: era il sindaco di Orune». Sanna rimane in carica per due mandati, il primo dal 1946 al 1956 e il secondo dal 1962 al 1964 quando, per motivi di salute, si dimette. Il suo Comune le ha dedicato un libro, arrivato solo nel 2008, dal titolo “Sa Sindachessa Margherita Sanna”.
Elsa Damiani Prampolini, prima cittadina di Spello, in Umbria, era una militante del Pci: rimane in carica fino al 1960 e si dà molto da fare per aiutare le famiglie e per ridurre l’emigrazione, dando vita a un ampio programma di opere pubbliche che favoriscono l’occupazione. A Borgosatollo, nel Bresciano, viene eletta Alda Arisi, anche lei comunista, in carica solo fino al 1947, per motivi di salute. In quei pochi mesi, però, Arisi riesce a attuare un piano di razionalizzazione delle spese comunali. In provincia di Verona, a Veronello, viene eletta in quota Dc Ottavia Fontana, molto attiva nella lotta alla disoccupazione e nella riqualificazione di scuole e case popolari. Purtroppo Fontana muore durante il mandato. Nel Lazio eleggono, a Roccantica (Rieti) nell’aprile 1946 Anna Montiroli Coccia, vedova di Ugo Coccia, segretario del Partito Socialista. Rientrata in Italia dalla Francia, è stata una grande sostenitrice di politiche attive in favore della maternità e dell’infanzia. Mentre a Massa Fermana (Fermo) si sceglie la comunista Ada Natali, partigiana e per vent’anni inviata al confino dal regime fascista. Anche lei, come molte altre, si dedica non solo a risanare i conti del suo Comune ma soprattutto a costruire case popolari e a potenziare la rete viaria: resta in carica fino al 1960, poi si dimette e diventa l’unica deputata comunista marchigiana eletta nella prima legislatura Repubblicana (1948-1953).









A Tropea, in Calabria, divenne sindaca – in carica fino al 1960 – Lydia Toraldo Serra, laureata in giurisprudenza e esponente della Dc. Grazie a lei per la prima volta viene istituita una scuola media, un liceo classico e un istituto professionale industriale. Nel 1972, ormai lontana dalla vita pubblica, riceverà la nomina a Cavaliere al merito della Repubblica. Nell’Appennino modenese, a Fanano, eleggono Elena Tosetti, che resterà prima cittadina fino al 1950 occupandosi di disoccupati, bambini e indigenti, oltre a redigere un piano di ricostruzione delle case distrutte durante la guerra. Ancora in Calabria, a San Sosti (Cosenza), entra in Municipio Caterina Pisani Palumbo Tufarelli, che resterà in carica fino al 1952 dedicandosi a infrastrutture, illuminazione stradale, alla risistemazione dell’acquedotto comunale, alla costruzione del mercato coperto, all’edilizia scolastica e popolare e all’assistenza sanitaria.
Tutte queste sindache sono diventate un po’ più note, almeno per un brevissimo periodo, nel 2016 quando l’allora presidente della Camera Laura Boldrini inaugurò a Montecitorio la “Sala delle donne” con i loro ritratti. Come sempre – e quasi c’è da ringraziare – solo donne che ricordano e celebrano altre donne.