Chiara Appendino: «Da sindaca gli uomini mi volevano consigliare, ma era solo paternalismo. A Meloni dico che non basta essere donna per stare con le donne»
L'ex prima cittadina di Torino: «Per noi vale il doppio standard: ci valutano per la voce, la capacità di essere madri e la nostra vita privata. Nel mio Pantheon c'è la partigiana Tina Anselmi».
In questa puntata di Sconfinate - Le donne della politica, la politica delle donne torniamo sul tema delle sindache e lo facciamo con un’intervista a Chiara Appendino, ex prima cittadina di Torino, che ringraziamo per la disponibilità.
I commenti paternalistici mascherati da consigli, l’attenzione alla sua vita privata, le minacce ricevute e la scorta obbligatoria per le scelte fatte durante la sua amministrazione. E poi quella consapevolezza che se sei donna e fai politica sarai giudicata non per le tue capacità e le tue decisioni, quanto piuttosto per la tua voce, il tuo aspetto, la tua vita privata e per la tua capacità di essere madre. Chiara Appendino, classe 1984, due figli - uno avuto durante il mandato, a dimostrazione che la gravidanza non è un impedimento a nessun sogno né lavoro, principio di cui qui su Sconfinate siamo convinte - oggi è deputata e vicepresidente del Movimento Cinque Stelle. Ma quando ripensa alla sua esperienza da sindaca di Torino, carica che ha ricoperto dal 2016 al 2021 - con Virginia Raggi fu protagonista indiscussa di una tornata elettorale che vide il più alto numero di donne elette nei Municipi delle grandi città - non ha dubbi: «Da donna ho sempre dovuto dimostrare il doppio. E agli uomini, di certo, di consigli con tono paternalistico non se ne danno».
Secondo un’analisi che Sconfinate ha pubblicato sabato scorso, in Italia ci sono 1.210 sindache (diventate 1.213 con le tre elette il 9 giugno al ballottaggio) a fronte di 6.648 sindaci: vuol dire un’incidenza del 15,43 per cento. Da ex sindaca, come valuta questa percentuale?
«È ancora troppo bassa, addirittura con punte sotto il 7% in regioni come Sicilia e Campania. Non è questione di merito, ma di un sistema che fatica a riconoscere la leadership femminile. E non vale solo per la politica: basta pensare che in questi giorni è stata eletta la prima rettrice all’Università di Torino dopo 621 anni di storia. Del resto, l’ultimo rapporto sul differenziale di genere del World Economic Forum mette l’talia al 117° posto nel mondo - per quanto riguardo il lavoro - nonostante le donne siano il 59% dei laureati. C’è ancora molta strada da fare».
Lei si è mai sentita discriminata in politica in quanto donna? E da parte dei giornali ha mai percepito una discriminazione in quanto donna?
«Spesso una donna - ed è successo anche a me - viene raccontata prima di tutto per il suo aspetto, la voce, la vita privata, il suo essere madre. Per gli uomini questo metro non vale. È un doppio standard che ancora oggi resiste ed è il sintomo di un modello culturale in cui la donna in politica è ancora percepita come un’eccezione. Ma devo dire che più di una vera e propria discriminazione, ciò che ho percepito quasi costantemente è stata una doppia necessità di dimostrare di valere: nelle riunioni e ai tavoli decisionali ero spesso l’unica donna, sì, ma ero anche la più giovane, e in Italia questo vuol dire dover dimostrare molto più degli altri».
C’è uno studio di due ricercatori da cui emerge che le sindache sono bersaglio, con tanto di insulti e minacce, tre volte di più dei colleghi uomini. Lei anche, da sindaca di Torino, è stata minacciata di morte tanto che le venne data una scorta. Cosa ricorda di quel periodo?
«Sono stati anni difficili, per me e per la mia famiglia. Non auguro a nessuno di dover spiegare a una bambina perché la mamma ha la scorta. Ma nel mio caso, più che all’essere donna erano legate allo sgombero di un asilo occupato da decenni dagli anarchici».
Silvia Salis, neo sindaca di Genova, subito dopo l’elezione ha denunciato un clima - in campagna elettorale – di «totale mancanza di fair play», ricordando anche le frasi sessiste che le hanno rivolto esponenti del centrodestra come Maurizio Gasparri e Antonio Tajani. Nella sua carriera politica, lei ricorda episodi del genere?
«Mi è capitato tante volte di ricevere commenti con toni paternalistici mascherati da “consigli” o “preoccupazioni”, sicuramente frasi che un uomo non si sarebbe mai sentito rivolgere».
C’è un episodio in particolare di quando era sindaca, o anche più recente, in cui lei ha sentito forte la discriminazione di genere?
«Le racconto un aneddoto che mi ha colpito e che rende bene l’idea di quanto il sessismo sia radicato nella nostra società. A Torino spesso le scolaresche visitano il Municipio, e da sindaco quando potevo ricevevo le classi in ufficio. Più di una volta, alla fine dell’incontro, qualche bambino o bambina alzava la mano e chiedeva: “Ok, ma quando arriva il sindaco maschio, quello vero?”. È una domanda che fa riflettere, perché quei bambini non volevano mancare di rispetto: semplicemente, non avevano mai sentito parlare di una sindaca. Per loro il sindaco era, per definizione, un uomo. Ed è qui che si capisce quanto la lingua e l’immaginario contino. Questa è la discriminazione più insidiosa: quella che non nasce dalla cattiveria, ma dall’abitudine, da secoli di rappresentazioni in cui il potere ha sempre avuto un volto e una voce maschili. Per questo sono convinta che usare i termini giusti - come sindaca o ministra - non sia un vezzo linguistico, ma un atto politico. Perché le parole formano il pensiero. E se una bambina non sente mai dire “la sindaca”, farà più fatica a immaginarsi in quel ruolo».
Martina Carone, docente ed esperta di comunicazione di YouTrend, ha definito, su questa newsletter, la carriera delle donne in politica come «un percorso a ostacoli in cui alle spalle c’è sempre con un cecchino che prova a spararti». Lei è d’accordo con questa definizione? Se no, quale altra utilizzerebbe?
«Purtroppo la politica per molte donne è resa più dura da giudizi costanti e attacchi mirati causati da una fitta rete di pregiudizi da cui è difficile liberarsi. Ma attenzione: non vale soltanto in politica, anzi. Anche per questo il fatto di avere una presidente del Consiglio donna serve a poco se poi porta avanti politiche contro le donne, come purtroppo sta facendo Giorgia Meloni».
Ci dice qual è la donna politica che l’ha ispirata e che la ispira tuttora, se c’è?
«Sinceramente non ho avuto una vera e propria ispirazione, ma indubbiamente ci sono dei punti di riferimenti importanti. Guardando alla nostra storia citerei Tina Anselmi. Non solo perché è stata la prima donna ministra della Repubblica, ma anche perché è stata una donna di Resistenza, una partigiana, che ha poi saputo portare la stessa coerenza in battaglie importanti come quella per il Servizio sanitario nazionale e per la trasparenza con la Commissione P2. In un’epoca in cui era molto più difficile di oggi per una donna imporsi con autorevolezza in politica, ha contribuito ad aprire una strada».